Il cammino del mago

Titolo: Trilogia della città di K (Le grand cahier, La preuve, La troisième mensonge).
Scrittore: Agota Kristof.
Genere: drammatico, guerra, psicologico.
Editore: Einaudi.
Anno: 2000.
Voto: 7.
Dove lo trovi: qui.


Le recensione di oggi è dedicata a un romanzo che ha avuto molto successo negli ultimi anni, Italia compresa.
Anche se, per essere precisi, non si tratta di un romanzo unico, ma di una trilogia, come recita il nome stesso: parlo della Trilogia della città di K, scritto da Agota Kristof.

Agota Kristof è una scrittrice ungherese naturalizzata svizzera, che ha molto colpito l’immaginario letterario nella seconda parte degli anni 80 col suo primo libro, che per l’appunto è stato l’apripista di tale trilogia, ossia Il grande quaderno.

Negli anni successivi sono arrivati poi La prova e La menzogna, fino alla definitiva Trilogia della città di K.

La città di K sarebbe una città non meglio identificata di uno stato non ben definito, colpito dalla guerra e dalla povertà e vicino a una zona “libera”, anch’essa mai citata.
Considerando le origini della Kristof, tuttavia, è facile intuire che si tratti dell’Ungheria e dello scontro tra influenza sovietica e occidentale.

La Trilogia della città di K ha lasciato il segno per diversi elementi, tre soprattutto.
1. La struttura narrativa della trilogia, che in sostanza riporta gli stessi eventi, e spesso gli stessi personaggi, da differenti (molto differenti, come si vedrà) punti di vista.
2. Lo stile narrativo, scarno, essenziale e di un’efficacia disarmante.
3. La riflessione, triste e sconsolata, sull’animo umano e sulle vicende della vita, specialmente della vita difficile derivante dalla guerra e dalla povertà.

Ne Il grande quaderno si presentano i due personaggi principali, due gemelli che, per motivi contingenti legati al conflitto bellico, vengono lasciati dalla loro madre alla nonna, una vecchia antipatica e scorbutica.
I due, i cui nomi in questo libro non sono mai menzionati e che di fatto sono talmente uniti e in sintonia da essere intercambiabili, colpiscono immediatamente il lettore per la loro genialità e il loro cinismo.
Essi, in particolare, si segnalano per le accurate strategie e prove di sopravvivenza.

Ne La prova, i due gemelli si auto sottopongono alla prova più dura: la loro separazione.
Lucas (stavolta i nomi propri vengono usati) rimane, mentre Klaus va nel mondo “libero”, attraversando la frontiera.

Ne La menzogna, infine, si assiste a un quasi completo ribaltamento di quanto finora detto e dato per assodato, con la distorsione che è assai profonda e dura.

Nel frattempo, si sono visti molti personaggi, da Victor a Labbro leporino, da Mathias a Clara, molti dei quali veramente ben caratterizzati.

In definitiva, la Trilogia della città di K di Agota Kristof si distingue per molti punti, ed è certamente un buon libro, anche se mi rimane l’impressione che, per molti aspetti, sia un libro furbo, scritto ad hoc per suscitare certe reazioni di scandalo o di pathos.

Notevoli, in ogni caso, struttura narrativa e semplicità di stile, nonché l’esemplificazione di come verità e menzogna possano essere unite e interconnesse in modo quasi inestricabile.

Storia molto triste dal punto di vista emotivo, che probabilmente non piacerà a chi dalla letteratura vuole divertimento e passione.

Fosco Del Nero


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Titolo: La stella fuggiasca (The renegade star).
Scrittore: Vargo Statten/John Russell Fearn.
Genere: fantascienza.
Editore: Libra.
Anno: 1951.
Voto: 5.
Dove lo trovi: qui.


La recensione di quest’oggi non è una delle solite recensioni che propongo, e che spero siano sufficientemente dettagliate e facciano capire al lettore se il libro può interessargli o meno, ma più che altro è un commento en passant su un libro che ho letto anni fa, di cui confesso che mi ricordo non tantissimo…

Lo riporto su Libri e Romanzi per un motivo molto semplice: sono da molti anni un appassionato di narrativa fantastica, e in particolare anni fa leggevo soprattutto fantascienza.

Mi capitò di leggere La stella fuggiasca in quanto il suo autore, Vargo Statten (pseudonimo di John Russell Fearn) veniva descritto come di valore.

Il suddetto romanzo, tuttavia, mi deluse non poco, posto che si trattava di fantascienza di serie B, forse persino di C, rispondente in pieno ai cliché e agli stereotipi più negativi su questo meraviglioso genere letterario.

La stella fuggiasca, difatti, è un libro di valore meno che mediocre: l’ambientazione lascia a desiderare, la profondità lascia a desiderare, i personaggi lasciano a desiderare.

Lo stile narrativo di Vargo Statten è deludente, come deludente sono le caratterizzazioni di praticamente tutto (in particolare, è precario il delineamento psicologico dei protagonisti).

L’unica cosa che si salva è un certo dinamismo di fondo, fatto di avventure e azione a go go.

Come dicevo, lo stereotipo che fa pensare a molte persone che il genere fantastico sia un genere di scarso valore, tutto azione, banalità e scarsa profondità.

Non a caso, se penso al contrario di Vargo Statten/John Russell Fearn, mi viene in mente Isaac Asimov, e allora sì che ragioniamo…

In definitiva, se vi va provate a leggerlo, ma a mio avviso è tempo perso: tra gli scritti di decenni fa o tra i contemporanei si trova molto di meglio: se volete un consiglio, leggetevi il Ciclo della Fondazione di Asimov (per i classici) o il Ciclo di di Ender di Card (per i contemporanei).

Fosco Del Nero


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Titolo: Lo hobbit (The hobbit - There and back again).
Scrittore: John Ronald Reuel Tolkien.
Genere: fantasy.
Editore: Adelphi.
Anno: 1937.
Voto: 8.5.
Dove lo trovi: qui.


Quest’oggi recensisco un libro mica da poco, che ho avuto il piacere di leggere più di una volta, la prima da ragazzino, circa 14 anni fa.
Come passa il tempo…

È un libro mica da poco per diversi motivi.
Intanto per il fatto puramente letterario, posto che si tratta di un signor romanzo.

In secondo luogo, per il fatto di aver fatto da apripista a uno dei testi più apprezzati delle ultime decine di anni, capace non solo di generare un fenomeno culto, dall’aspetto letterario a quello cinematografico, da quello dei giochi di ruolo a quello prettamente immaginifico, ma anche di smuovere le acque del settore fantastico-fantasy.

Sto parlando nel primo caso de Lo hobbit, e nel secondo de Il signore degli anelli.

Lo hobbit, o La riconquista del tesoro, è probabilmente il romanzo più importante di John Ronald Reuel Tolkien, sia perché viene cronologicamente prima de Il signore degli anelli, sia perché ne costituisce il fondamento storico, sia perché ha lanciato lo scrittore sull’onda del successo, poi esploso con le conversioni cinematografiche della Trilogia dell’anello.

Anche se, a voler essere precisi, Lo hobbit, all’interno della mitologia di Tolkien, è preceduto a sua volta da un libro, ossia Il Silmarillion, che tuttavia, lasciato incompiuto da Tolkien padre e poi completato e pubblicato da Tolkien figlio, più che una storia vera e propria costituisce il corpus culturale e storico su cui si basano i fortunati romanzi successivi.

All’interno di tale trittico (Il Silmarillion, Lo hobbit, Il signore degli anelli) Tolkien descrive le Quattro Ere della Terra di Mezzo, con Lo hobbit (come anche la successiva trilogia) che è ambientato durante la Terza Era.

Per i curiosi, nessun libro è stato dedicato alla Quarta Era, che sarebbe poi quella in cui gli uomini prendono il sopravvento nella Terra di Mezzo, mentre le altre razze lentamente scompaiono…

Ma veniamo a questo libro.
In esso il protagonista è Bilbo Baggins, il quale, su incarico di Gandalf, si trova a compiere una grande avventura… proprio lui che è un hobbit così tranquillo che ama l’abitudinarietà della sua vita nella Contea.

Bilbo alla fine partirà, e farà parte di una compagnia: Thorin Scudodiquercia, Balin, Dwalin, Kili, Fili, Dori, Nori, Ori, Gloin, Bifur, Bofur e Bombur.

Anche se la conoscenza più peculiare e interessante di tutto il libro Billo la fa all’interno di una grotta, laddove si imbatte per caso in Gollum e nel suo anello… o meglio, nel suo "tesoro"…

Questa la primissima parte del romanzo, molto ricco di personaggi, luoghi ed eventi.
Il suo fascino principale, a mio avviso, consiste nell’essere al contempo semplice e profondo.

Semplice perché Lo hobbit è nato come un libro per l’infanzia, e mantiene per tutta la sua durata uno stile assai confidenziale e poco barocco.

Profondo perché Tolkien, tra un hobbit e un elfo, un nano e un mostro, parla dell’uomo, delle sue paure e dei suoi desideri, realizzando una notevole allegoria dell’esistenza umana (un caso simile di opera fantasy apparentemente dedicata all’adolescenza ma in realtà assai profonda è il bellissimo La storia infinita, di Michael Ende).

Insomma, Lo hobbit è un libro da leggere.

Fosco Del Nero


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Titolo: L’orlo della Fondazione (Foundation's edge).
Scrittore: Isaac Asimov.
Genere: fantascienza.
Editore: Mondadori.
Anno: 1954.
Voto: 8.
Dove lo trovi: qui.



L’orlo della Fondazione è il quarto romanzo scritto da Isaac Asimov sul Ciclo della Fondazione, che inizialmente era una trilogia (Prima FondazioneFondazione e Impero, Seconda Fondazione), ma che poi, su pressioni dei lettori e dell’editore, ha visto anche questo quarto libro (per l'appunto, quello recensito quest'oggi), un quinto (Fondazione e Terra), nonché due prequel (Preludio alla Fondazione, Fondazione anno zero).

Alla fine della fiera, dunque, si tratta di un’eptalogia, di cui questo dunque è il sesto libro in ordine cronologico degli eventi narrati.
La suddetta saga fu anni fa giudicata, da un gruppo di scrittori americani, come il miglior ciclo letterario di tutti i tempi.
Non avevano tutti i torti, devo dire…

Riporto in breve la trama di questa bellissima serie letteraria: Hari Seldon, storiografo dell’Impero, ha messo a punto una serie di calcoli matematici, la psicostoria (o psicostoriografia) con i quali è possibile sapere in anticipo il futuro secondo le linee di tendenza inserite nei calcoli stessi. Tramite tale nuova scienza egli viene a sapere che l’Impero è destinato a decadere e dunque, per preservare i tempi da una lunga barbarie, decide di creare la Fondazione, prima gruppo segreto di scienziati della psicostoria che lavora secondo i dettami di Seldon (che appare nel futuro sotto forma di ologramma per dare suggerimenti sulle varie “Crisi Seldon” individuate secoli prima), e poi vera e propria Confederazione Galattica.

In questo quarto libro sono passati ben 500 anni dall’inizio del Piano Seldon, e la Federazione controlla ora circa un terzo della galassia, dopo essere passata indenne a vari attacchi (la guerra con i sognori locali della periferia galattica, il confronto col decadente Impero, il tentativo di distruggerla da parte del Mulo): l’ultima apparizione di Seldon conferma il buon svolgimento dell’opera, fortificando dunque la posizione del sindaco Harla Branno.
Tuttavia, un consigliere, Golan Trevize, inizia ad avere dubbi sul funzionamento del piano, che sembra persino troppo perfetto, come se la Seconda Fondazione non fosse ancora scomparsa, controllando ancora il succedere degli eventi.
Più o meno lo stesso pensiero di Stor Gendibal, un giovane e promettente oratore della Seconda Fondazione, che su Trentor si interroga su tale apparente perfezione, riflettendo sul fatto che forse c’è qualche altra entità, ancora più potente, che interagisce con gli eventi... e così, assistito dalla semplice ma utile Novi, va in missione alla ricerca di Gaia, un pianeta semi-mitico.

Che dire?
Il solito grande libro targato Asimov (oltre alla Fondazione, lo scrittore ha scritto altri grandi capolavori, come per esempio Neanche gli Dei, libro di una bellezza abbacinante), non a caso vincitore del Premio Hugo e del Premio Locus, non a caso best seller per numerose settimane di fila in America.

Personaggi memorabili, un intreccio strepitoso, un’atmosfera ricca e coinvolgente, un grande acume nella descrizione degli eventi socio-diplomatico-politici notevole.

Prendetevi il primo libro del Ciclo della Fondazione (tra l’altro, possibile iniziare sia dal primo cronologicamente parlando, ossia Prima Fondazione, oppure da uno dei due prequel) e leggetevelo: scommetto che poi vorrete leggervi anche tutti gli altri.

Fosco Del Nero


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Titolo: Manuale di caccia e pesca per ragazze (The girls' guide to hunting and fishing).
Scrittore: Melissa Bank.
Genere: commedia femminile, commedia, sentimentale.
Editore: Sperling.
Anno: 1999.
Voto: 5.
Dove lo trovi: qui.


Ormai l’elenco delle commedie femminili che ho recensito è abbastanza lungo, fatto non sorprendente dato che, come spesso sottolineato, adoro il genere alla I love shopping.

Finora, sono passati sul mio comodino i vari: Devo comprare un mastinoAl diavolo piace, Colazione da Tiffany Trott, Nome e indirizzo: sconosciuti, Amore al cioccolato, I love shopping e i suoi seguiti…

Oggi recensisco un altro romanzo del medesimo genere, ossia una commedia umoristico-sentimentale incentrata sulle vicende di una giovane donna alle prese con i soliti problemi: l’amore, la bellezza, il lavoro, le amicizie.

Il titolo del libro è Manuale di caccia e pesca per ragazze, mentre la sua autrice è Melissa Bank.

Al centro del cerchio stavolta c’è Jane, con i suoi desideri e le sue delusioni amorose.

Per quanto il romanzo venga presentato come brillante e divertente, cosa che farebbe pensare a un esponente all’altezza di quelli citati a inizio articolo, occorre dire che il tono del libro è meno ironico e più sentimentaloide, con le vicende che non coinvolgono più di tanto.

Manuale di caccia e pesca per ragazze è a tratti insipido, a tratti struggente; non si fa notare per una straordinaria espressività o per il vivace umorismo, ma punta più che altro sui contenuti emotivi, che solo a momenti sono tratteggiati con efficacia.

Prende così vita la storia senza eccessi di Jane, una ragazza-donna “normale”, ben lontana dal’esuberanza di Becky Bloomwood e socie.

Il problema è che in tal modo il libro né diverte e né appassiona, rimanendo nella mediocrità e forse a metà strada tra diversi target di pubblico (dramma sentimental-patetico o commedia brillante-umoristica?).

Insomma, prima di Manuale di caccia e pesca per ragazze di Melissa Bank leggetevi gli altri che ho citato, e magari anche qualcun altro…

Fosco Del Nero


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Titolo: L’isola del giorno prima.
Scrittore: Umberto Eco.
Genere: storico, surreale.
Editore: Bompiani.
Anno: 1994.
Voto: 7.5.
Dove lo trovi: qui.



L’isola del giorno prima (1994) è il secondo romanzo di Umberto Eco che recensisco, dopo l’ormai classico Il nome della rosa (1980).

Se Il nome della rosa è un romanzo facilmente identificabile in un genere letterario specifico, ossia una sorta di giallo-thriller coltissimo ed eruditissimo, L’isola del giorno prima presenta molte difficoltà di definizione.

È anch’esso, come peraltro era facile attendersi, un libro assai erudito, ma esso si muove tra vari generi letterari, e rimane quasi impossibile da inquadrare: è ambientato nel 1600, e quindi ha l’aria del romanzo storico, si muove tra il passato e il presente del protagonista, tale Roberto de la Grive, oscilla tra lo scritto psicologico e il trattato tecnico-scientifico, per poi sfociare nella dialettica filosofico-esistenzialistica.

Quel che è certo, comunque, è che non è un testo leggero…

Ecco in breve, molto in breve, la trama: Roberto de la Grive nell’estate del 1643 è vittima di un naufragio, e per giorni e giorni vaga su una zattera nel mare aperto… prima di approdare sulla Daphne, una nave apparentemente abbandonata, e tuttavia ricca di cibo, acqua, vita animale e vegetale, documenti e oggetti di ogni tipo.
Roberto si trova in una situazione difficile: non ha a disposizione alcuna barca, non può spostare la nave, non sa nuotare e peraltro un problema agli occhi lo costringe a uscire all’aperto solo dall’imbrunire il poi.
In più, pare che ci sia qualcun altro sulla nave, visto che sparisce del cibo e alcuni oggetti si muovono…
Le giornate vuote, in ogni caso, diventano un momento per rievocare il suo recente passato, dalla battaglia di Casale Monferrato al viaggio che lo ha portato al naufragio.

Alla fine, vari sono gli spunti che emergeranno dal testo, in primis quello dell’antimeridiano di Greenwich, che separa la nave dall’isola di cui si intravede il profilo nel mare… l’isola del giorno prima, per l’appunto (perché se sulla nave è lunedì, sull’isola è domenica, trovandosi essa al di là dell’antimeridiano)…

Se L’isola del giorno prima è un romanzo è difficile da inquadrare, è viceversa facilissimo da consigliare: piacerà senz’altro a chi ama i testi profondi e con dei contenuti importanti, mentre è facile che deluda, e anzi che annoi a morte, chi ama azione e dinamismo.

Fatto peraltro da attendersi da uno scrittore cerebrale come Umberto Eco.

Fosco Del Nero


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Titolo: Il re non decapitato (The unbeheaded king).
Scrittore: Lyon Sprague De Camp.
Genere: fantasy.
Editore: Editrice Nord.
Anno: 1983.
Voto: 7.
Dove lo trovi: qui.


Ecco la recensione del terzo e ultimo libro della trilogia di Jorian re di Iraz, scritta da Lyon Sprague De Camp tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 80.
Difatti, se il primo romanzo, La torre di goblin, era del 1968 e il secondo, Jorian di Iraz, del 1971, questo terzo libro, Il re non decapitato, è del 1983.

Tutti e tre i romanzi sono poi stati racchiusi nel medesimo volume da Editrice Nord, editore specializzato in narrativa fantastica.

Come ho già scritto nelle precedenti recensioni, Lyon Sprague De Camp è uno scrittore che mi piace parecchio: i suoi testi sono scorrevoli, divertenti, pieni di spunti e personaggi interessanti.

Se il genere è il fantasy, non si tratta certamente del fantasy più classico, per intenderci quello in stile Lo hobbit, La spada di Shannara o Eragon, ma di una sorta di avventura eroicomica piena zeppa di gag e spunti umoristici.

Ed ecco che, dalla fantasia di De Camp, esce fuori Jorian, nativo dell’Ardamai, figlio delll’orologiaio Trevor, ma incapace di continuare la carriera da artigiano del padre un po’ un po’ perché dotato di altri talenti, un po’ perché la vita lo conduce altrove.
Difatti, egli si ritrova in rapida serie soldato, re, consigliere di corte, assistente mago, artista di strada, avventuriero, operaio… e infine nuovamente orologiaio.

Il suo principale compagno di avventura è il mago Karadur, tanto anziano nel corpo quanto acuto e saggio nella mente, sorta di suo naturale complemento.

Il suo scopo principale, invece, ritornare insieme a sua moglie Estrildis, rimasta nel regno di Xylar, di cui lui è stato re e che ha abbandonato per la sua bizzarra usanza di decapitare il vecchio re ogni cinque anni in modo da evitare un eccessivo accentramento del potere.

Nell’esecuzione di tale missione (a Xylar lo cercano ancora per completare la cerimonia di destituzione del vecchio re e nomina del nuovo… ossia colui che prenderà al volo la sua testa decapitata), Jorian conoscerà tanti personaggi, dallo stregone Abacarus alla damigella di corte Margalit, dal buttafuori Boso alla maliziosa Vanora, alla maga Goania… passando per una miriade di eventi e personaggi secondari.

Il pregio principale di L.S. De Camp è uno stile narrativo molto sciolto e vivace, che rende i suoi libri piuttosto divertenti (a mio avviso, il secondo e il terzo romanzo sono un poco meglio del primo).
Tuttavia, si tratta di libri privi della pretesa del capolavoro fantastico (come potrebbe essere Il signore degli anelli, che può piacere o meno, ma che ha comunque uno slancio epico di una certa portata… si pensi oppure a Il serpente Ouroboros di Eddison).


In definitiva, una buona lettura.

Fosco Del Nero


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Titolo: Sulle ali della notte (Twilight phantasies).
Scrittore: Maggie Shayne.
Genere: sentimentale, fantastico.
Editore: Harlequim Mondadori.
Anno: 1993.
Voto: 5.
Dove lo trovi: qui.


Nuova recensione su Libri e Romanzi: stavolta il fortunato prescelto è Sulle ali della notte, di Maggie Shayne, primo libro della serie Blue Nocturne.

Partiamo dal genere: si tratta di una storia sentimentale con venature fantastiche e da thriller.
Il primo punto lo chiarisco subito: siamo di fronte a un romanzo in stile Harmony, per quanto non così smaccato, in cui dunque la componente relazionale-amorosa ha la preminenza.

Essa, in particolare, è inserita in un contesto di tipo fantastico, posto che tra i protagonisti vi sono dei vampiri, ed è contornata da alcuni elementi, specie nel finale, drammatico-violenti, posto che nella storia vi sono persone che i vampiri li vogliono uccidere a tutti i costi.

In mezzo al guado, Tamara Dey, una giovane donna che da piccola ha perso i genitori ed è stata allevata da Daniel, suo padre adottivo, e da Curtis, sorta di fratello maggiore.

Tamara, tuttavia, ha dei problemi: insonnia, turbolenze emotive, strani ricordi e sensazioni… e tutto questo andrà a incrociarsi con la figura di Eric Marquand, che, guarda caso, pare essere il vampiro plurisecolare cui Daniele e Curtis stanno dando la caccia da decenni.

Ma Tamara, dal canto suo, a questa storia dei vampiri non ci crede neanche un po’… almeno fino a che...

L’intreccio del romanzo non è niente di che, tanto che la trama è intuibile fin dalle prime pagine, con l’evoluzione del libro che prosegue proprio sul binario che si era supposto inizialmente.

Non vi è in esso, inoltre, alcun elemento originale, dal momento che il tema fantastico del vampirismo è semplicemente uno spunto per raccontare la storia d’amore di Tamara.
La quale, come detto, è raccontata un po’ in stile Harmony, fatto che certo non piacerà molto a chi non è appassionato del genere…

Altro punto negativo è il fatto che i personaggi, molto pochi peraltro, non sono certo indimenticabili, coll’inevitabile risultato che Sulle ali della notte non rimarrà certo nella storia della letteratura mondiale.

È da dire, comunque, che, nonostante trama, personaggi e scarsa originalità, il romanzo si fa leggere velocemente, con la coppia Tamara-Marquand (coppia il cui esito, ripeto, si intuisce fin dall’inizio) che comunque guadagna le simpatie del lettore.

Peraltro, in pieno stile Twilight, il recente film d’amore adolescenziale tra una ragazza e un vampiro che tanto successo ha avuto lo scorso anno in tutto il mondo.

In definitiva, Sulle ali della notte di Maggie Shayne è una lettura leggera e veloce, senza infamia e senza lode, che però non arriva alla sufficienza.

Fosco Del Nero


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Titolo: L’era dei miracoli (Silicon embrace).
Scrittore: John Shirley.
Genere: fantascienza, surreale, fantastico.
Editore: Editrice Nord.
Anno: 1996.
Voto: 6.
Dove lo trovi: qui.


John Shirley è uno scrittore un po’ meticcio, che ha fama, e non a caso, di grande sperimentatore e di autore irriverente.

Formalmente egli è inserito tra gli autori di fantascienza, dato che di fatto scrive di argomenti fantastici, ma il suo stile lo porta a costituire un mix tra diversi generi, dall’avant-pop al cyberpunk, dalla fantascienza classica all’horror.
Il tutto, condito con una buona dose di ironia e di vivacità intellettuale.

In tal senso, il romanzo che recensisco oggi, L’era dei miracoli, lo rappresenta perfettamente, visto che esso prende le mosse da uno spunto fantascientifico, lo ambienta in un contesto simil cyberpunk e lo sviluppa poi in una trama fanta-religiosa… pregna peraltro di una certa contorta ironia…

Ecco in sintesi la trama: Quinn Helden, reporter di Generazione Z, scopre bizzarri similitudini tra svariati avvenimenti della storia umana, recente e non.
La sua ricerca parte dalla Seconda Guerra Civile Americana e dalla Grande Carestia (avvenute in un prossimo futuro) per poi proseguire con la figura di Gesù o i contatti con gli alieni.

Nel calderone dello scrittore ci finisce praticamente di tutto, con le citazioni, spesso ironiche, che si sprecano: in particolare, John Shirley si diverte a scimmiottare e deridere X-Files, il movimento new age, La guerra dei mondi, la religione, la politica.

Tanto che, alla fine della (confusa e raffazzonata) storia, tutto è collegato con tutto, e trattato peraltro con una certa leggerezza, con il colpo di scena finale, piuttosto bislacco anch’esso, che è un esempio chiaro dello stile di Shirley.

Una storia futuristica fortemente innovativa e visionaria, dunque, che non si fa apprezzare eccessivamente per uno stile narrativo rigoglioso o per un certo lirismo di fondo, ma che perlomeno è originale e vivace.

Insomma, in giro c’è di meglio de L’era dei miracoli di John Shirley, ma anche di peggio.

Fosco Del Nero


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